La web tax potrebbe diventare realtà. Si tratta di una tassa non destinata ai consumatori, ma alle aziende online – come Facebook, Amazon o Google. Lo scopo è quello di cambiare le regole attuali facendo in modo che i ricavi di queste società che vengono generati in Italia con la vendita di inserzioni pubblicitarie si trasformino in parte in tasse da pagare al fisco italiano. Questo al momento non accade perché le leggi europee consentono a queste società di avere una sola sede legale in Europa e di poter registrare tutti i loro ricavi presso quella sede, senza doverne aprire una in ogni stato europeo in cui siano presenti. Come sappiamo paesi, come Irlanda o Lussemburgo, hanno regimi fiscali molto più favorevoli e quindi le grandi società online scelgono come sedi legali queste nazioni.
Per fare alcuni esempi dei risultati derivanti dalla situazione attuale, Facebook su 180 milioni di ricavi in Italia nel 2015 ha versato al fisco italiano solo 203 mila euro mentre la filiale italiana del colosso dell’home sharing, Airbnb Italy Srl, ha dichiarato imposte per appena 45.775 euro.
La web tax invece prevede l’obbligo di tutte le società che acquistano e vendono pubblicità e servizi come quelli legati al commercio elettronico di aprire una partita Iva italiana. Così facendo, l’inserzione potrebbe essere venduta solo da imprese con partita Iva italiana. Evitando che il traffico pubblicitario italiano venga acquistato all’estero da operatori stranieri che vendono dall’estero, scavalcando interamente l’Italia e il suo fisco.
Il fisco italiano ha intensificato gli sforzi per fare pagare il giusto ai giganti del web. Con qualche successo: le indagini della procura di Milano e l’azione dell’Agenzia delle entrate hanno portato già ad incassare 318 milioni, nel 2014, da Apple e, quest’anno, altri 308 milioni da Google.
Secondo alcuni però, obbligare Google, che ha sede legale in Irlanda, ad aprire una partita Iva in Italia sembra in netta contraddizione con quanto impone l’Europa. Altre critiche riguardano il rischio che una tassa del genere tenga lontani gli investitori stranieri (perché investire sul mercato italiano, se è così costoso?) e complicherebbe assai la gestione della pubblicità a livello globale. Per non parlare delle possibili ritorsioni da parte degli altri stati, che potrebbero costringere tutte le piccole imprese italiane che esportano via e-commerce ad aprire sedi in altri paesi del mondo. Penalizzando, quindi, gli scambi commerciali, la crescita del mercato digitale e anche aziende italiane che operano in questo settore.
Anche il recente G7 dei ministri delle finanze che si è tenuto a Bari si è occupato della famosa imposta sui servizi online che dovrebbe mettere fine alle asimmetrie fiscali che permettono ai giganti della tecnologia di pagare le tasse nei Paesi dove più conviene. Quello della web tax resta comunque un tema complicato e con tante sfaccettature perché persiste un problema internazionale, un problema fra gli Stati.